Il belcanto in primo piano al Teatro dell’Opera di Roma con “I Capuleti e i Montecchi” di Vincenzo Bellini. Orchestra e Coro “accompagnano” giovani talentuosi cantanti
“I Capuleti e i Montecchi” di Vincenzo Bellini torna in un nuovo allestimento al Teatro dell’Opera di Roma con prima giovedì 23 gennaio, ore 20, trasmessa in diretta da Rai Radio3. È la quarta produzione al Costanzi di questa opera del belcanto in 140 anni. Ad impreziosirla giovani interpreti, tutti al debutto nei rispettivi ruoli: Vasilisa Berzhanskaya canterà nel ruolo di Romeo (en travesti), Mariangela Sicilia e Benedetta Torre (1, 6 febbraio) in quello di Giulietta. Con loro sul palcoscenico Iván Ayón Rivas e Giulio Pelligra (1, 6 febbraio) che daranno voce al personaggio di Tebaldo, Nicola Ulivieri a quello di Lorenzo e Alessio Cacciamani sarà Capellio. Il Coro del Teatro dell’Opera di Roma sarà diretto dal maestro Roberto Gabbiani. Sul podio ci sarà il maestro Daniele Gatti; regia, scene, costumi e luci sono di Denis Krief. La prima apparizione sul palcoscenico romano di questa opera è datata 1967, diretta da un giovanissimo Claudio Abbado con la regia di Mario Missiroli e Luciano Pavarotti nel ruolo di Tebaldo; l’anno prima debuttò alla Scala con un Romeo tenore (nello specifico, Giacomo Aragall). Di questo nuovo allestimento il Sovrintendente del Teatro dell’Opera di Roma, Carlo Fuortes, sottolinea il “lavoro di cesello” svolto per renderlo speciale. Gatti, che torna a “I Capuleti e i Montecchi” dopo trent’anni da quando fu chiamato a Bologna per questo titolo dall’allora Sovrintendente Carlo Fontana, parla dell’aver “rivitalizzato il recitativo belliniano che è il vero motore della storia, con le emozioni sottolineate dall’orchestra con un accordo, un suono, una tinta tali da preparare una situazione scenica”. Krief evidenzia da parte sua come “I Capuleti e i Montecchi” sia un’opera non nata per essere rappresentata come tante degli anni Trenta dell’Ottocento, tanto da ricordare che quando fu chiamato Carmelo Bene per un’opera siffatta la presentò con lui solo sul palco, in vestaglia e pantofole, che ascolta l’opera alla radio, e l’orchestra che suonava nascosta. Per il buon “ascolto” dunque di quest’opera è bene ricordare che non si tratta di un adattamento dell’opera teatrale di William Shakspeare, ma di una specie di sintesi delle varie novelle italiane pubblicate nel corso dei secoli sul tema che ispirarono anche il drammaturgo inglese. È una storia che narra di una catastrofe dovuta a scelte e conflitti di adulti. Il quiproquo tragico, altamente teatrale, come ricorda Krief, è tratto da Ovidio: è la triste storia di Piramo e Tisbe vittime di un amore contrastato. Sono due ragazzi che per nascondere il loro amore, vietato per colpa di famiglie nemiche, si devono incontrare fuori della città, in piena natura selvaggia. Tisbe arriva per prima, si trova di fronte a un leone, spaventata fugge, lasciando cadere il fazzoletto che Piramo scopre quando sopraggiunge e, vedendolo macchiato di sangue, credendo che Tisbe sia stata divorata dal leone, dal dolore si uccide. Lei, che si era nascosta, sopraggiunge e trova il suo amore che sta morendo… “Il ‘c’era una volta’ delle favole – osserva Krief – non appartiene a questa tragica storia d’amore contrastata, umana, vera e profonda che in fondo non è legata né a un luogo né ad un’epoca: una città mal governata, in preda ai clan, sull’orlo della guerra civile appartiene a tutte le epoche passate, presenti e purtroppo future”.