Pino Calabrese, 50 anni in scena. Tutto cominciò in classe con Massimo Troisi
“È un premio abbastanza inatteso. Uno si prodiga durante tutta la carriera – quest’anno sono 50 anni – e vedere in qualche maniera le tue fatiche di una vita premiate è una cosa che inorgoglisce e rende fiero. Sono molto contento di questo riconoscimento a tutta la carriera, se non sfolgorante, di sicuro è stata una bella sudata arrivare fino a qua”. Lunedì 5 settembre all’Hotel Danieli di Venezia l’attore Pino Calabrese, partenopeo classe 1955, ritirerà il “Cultured Focus Lifetime Achievement Award”, il riconoscimento internazionale assegnato da Cultured Focus Magazine di New York e da Diversity in Film Symposium a personalità del mondo del cinema e della cultura internazionale: è un importante premio alla carriera per celebrare un percorso artistico tra teatro, cinema e televisione.
Pino Calabrese, qual è il momento più bello di questi 50 anni di carriera?
“Francamente non è che c’è stato un momento più bello. Ho fatto una carriera abbastanza costante. Ho dovuto sospendere purtroppo per ragioni familiari, nel senso che ho avuto in famiglia prima mio padre e poi mia madre che non sono stati bene e che ho perso abbastanza giovani, per cui mi sono dovuto un po’ dedicare a loro, ma nel complesso è stata una carriera costante, senza grandissimi picchi, ma senza grossi decadimenti. Insomma, non mi posso assolutamente lamentare. Io ho vissuto la mia carriera così come francamente avrei voluto, se me lo avessero chiesto all’inizio avrei detto: la voglio proprio così, cioè una carriera costante, che mi dia la possibilità di poter mangiare con questo lavoro che adoro. Poi, francamente, la notorietà, la fama se arriva, arriva, ma non ha importanza, l’importante è che si riesca a vivere facendo un lavoro che piace e questo è sicuramente stato un indice costante della mia carriera”.
Hai parlato dei tuoi genitori, loro cosa pensavano del fatto che tu intraprendessi questa carriera?
“Mio padre mi iscrisse subito ad un Istituto tecnico, perché disse: tu non sei fatto per un Liceo classico, così come aveva fatto lui, e nemmeno per un Liceo scientifico. Ha detto: ‘è meglio che ti iscrivi ad un Istituto tecnico per Geometri, perché perlomeno hai un diploma in tasca’. Però poi dopo, una volta diplomato, io decisi di iscrivermi prima a Medicina, dove ho fatto un paio di esami, e poi invece a Lettere, Letteratura italiana. Mi hanno appoggiato. Poi, dissi: ‘io non posso più studiare, perché non ce la faccio, perché questo è il mio lavoro, quello che sto facendo adesso’. Io ho iniziato abbastanza presto, a 17 anni, e, da quel momento in poi, loro mi hanno appoggiato. Forse l’unico rimpianto di questo rapporto con i miei è stato che a un certo punto, forse proprio in questa data, mio padre mi ha detto: ‘va bene, hai deciso di voler fare l’attore, vattene in America e cerca di trovarti una scuola’. All’epoca io avevo una paura di fare questa avventura, per cui decisi di rimanere in Italia, e questo è l’unico rimpianto che ho, cioè di non aver continuato in questo senso. Però è stato un rapporto assolutamente ottimo. Poi, fortunatamente loro facevano i commercianti, quindi, avevano la possibilità di appoggiarmi anche da un punto di vista economico. Un inciso: questo Istituto tecnico per Geometri mi permise di conoscere e di cominciare a frequentare Massimo Troisi, perché eravamo nella stessa classe, capitammo nella stessa classe. Lui era di circa tre anni più grande di me, aveva già fatto sperimentazioni al Magistrale, al Liceo Scientifico ed era capitato in questa classe dell’Istituto tecnico per Geometri e da allora cominciò il nostro rapporto. Anche lui iniziava il teatro in quel periodo e, quindi, è stato un bel periodo quello”.
Che avete fatto insieme?
“Noi abbiamo iniziato a San Giorgio a Cremano, che è una cittadina vicino Portici dove io sono nato, facendo la domenica mattina gli spettacoli per i bambini del rione. Li facevamo gratis perché allora in qualche maniera eravamo investiti politicamente, per cui facevamo la mattina per questi bambini il teatro della marionette prima, poi dopo facevamo proprio la classica commedia dell’arte con le maschere – Pulcinella, Brighella, Pantalone e compagnia cantante – lavorando solamente su un canovaccio, tutto a braccio, tutto così senza preparazione – tu fai questo, tu fai questo, tu fai questo, succede questo, succede quell’altro – e andavamo in scena, e i bambini erano divertiti da morire, tant’è vero che tutte le domeniche continuavamo a fare queste cose. Poi ci demmo al cabaret. E facemmo questo gruppo che si chiamava all’epoca ‘Rh negativo’”.
Perché questo nome?
“Che gruppo? Che gruppo? E alla fine venne fuori il gruppo sanguigno ‘Rh negativo’”.
Hai cominciato insieme a Massimo Troisi con cui condividevi anche gli stessi modelli?
“Il modello era lo stesso. Noi all’epoca eravamo molti impegnati politicamente, all’epoca nasceva il cabaret in Italia, in generale, con Gufi; a Napoli ce n’erano tanti di gruppi di cabaret, i Cabarinieri e compagnia cantante, per cui pensammo che il cabaret potesse essere una forma immediata di arrivare al pubblico e, quindi, in parte usavamo dei testi già scritti da altri, e altri li creavamo noi dando già però un’impronta politica. Poi iniziò in questo piccolo teatrino, che avevamo messo su, anche una sorta di stagione teatrale, per cui invitavamo anche gruppi che venivano da altre province e poi, mano, mano cominciò a venire gente da Napoli a vederci perché evidentemente eravamo bravini”.
Hai recitato anche nel primo film di Troisi “Ricomincio da tre”?
“No, poi a un certo punto le nostre strade si sono divise, tant’è vero che questo gruppo che avevo in qualche maniera creato io, gruppo che all’epoca non si chiamava della Smorfia, ma si chiamava prima dei Cabinetti, all’epoca si portavano questi nomi un po’ a doppio senso, equivoci, e, poi, i Saraceni, in questo gruppo c’eravamo io, Massimo, Lello (Arena, ndr) ed Enzo (De Caro, ndr). Poi Massimo andò in America per la sostituzione della valvola mitralica e quando tornò poi dopo nella preparazione di uno spettacolo successivo le nostre strade si divisero, perché loro volevano continuare a fare il cabaret e io invece volevo fare il gran teatro perché c’avevo in mente Gassman, i grandi attori del teatro di quell’epoca, per cui le nostre strade si divisero e, quindi, poi io non li ho più frequentati, tanto meno nel 1981 quando Massimo fece il suo primo film ‘Ricomincio da tre’”.
Hai fatto teatro e, ultimamente, anche teatro civile, raccontando Aldo Moro ed Enzo Tortora, come mai hai scelto di narrare le loro vite?
“Non c’è stata una scelta precisa, nel senso che io ho incontrato quattro anni fa un giornalista, che adesso è diventato un mio amico, Patrizio J. Macci, il quale è autore e dell’uno e dell’altro testo, che mi propose per il quarantennale della morte di Aldo Moro, quindi nel 2018, di fare uno spettacolo e pensammo di fare questa cosa che è a metà tra il reading e l’affabulazione con il pubblico. Io, che sono sempre stato appassionato degli anni Settanta, di tutto quello che è successo, raccolsi in pieno questa bellissima idea, dopodiché pensammo di toccare un argomento per quello che riguarda la drammaticità giudiziaria che aveva subito Enzo Tortora, che ci sembrava di dover fare, una cosa dovuta. Entrambi ci sembravano emblemi di una cattiva gestione politica italiana”.
Il tuo teatro è sempre stato impegnato?
“Assolutamente no. Nel senso che quando fai questo mestiere non sempre si può scegliere. Quindi io praticamente fino agli inizi degli anni Duemila sono stato sempre uno scritturato, mi chiamavano le produzioni, le compagnie e, quindi, io facevo parte di spettacoli e sono stato anche abbastanza fortunato, perché poi ho lavorato con la regia di Gigi Proietti, con la regia di Armando Pugliese, quindi con Enrico Montesano, ho lavorato con Piera Degli Esposti. Poi naturalmente adesso – ti sto parlando di 4, 5 anni fa – ho la possibilità di poter creare degli spettacoli miei e, quindi, di poter scegliere le cose che voglio fare, però non sempre hai la possibilità di poterlo fare”.
Adesso cosa stai preparando?
“Io continuo a portare in giro questi due spettacoli. Nel frattempo naturalmente io continuo a fare cinema e televisione. Ho fatto un piccolo protagonista di puntata nella serie ‘Noi’, che è andata già in onda; adesso invece in un’altra che andrà in onda, ‘Vincenzo Malinconico, avvocato’; e poi ho fatto ‘Il Commissario Ricciardi’ – sono protagonista di uno degli episodi, un venditore di tessuti accusato di omicidio -; e poi girerò il prossimo ‘I Bastardi di Pizzofalcone 4’, perché, seppur faccio un piccolo ruolo, è seriale, il Procuratore generale della Repubblica Basile, quindi sarò presente. Questo è per quanto riguarda la televisione. A cinema ho fatto l’anno scorso due film: uno per la regia di Mario Sesti, che è ‘Altri padri’ con Chiara Francini e Paolo Briguglia e tanti altri bravi attori come Maria Grazia Cucinotta, etc.; e poi ‘Il diritto alla felicità’ di Claudio Rossi Massimi, con Remo Girone. Sto preparando un film, che farò questo mese di settembre, di un italiano e del quale non posso dirti niente, e anche un altro film di produzione australiana, pure qui top secret. Quindi ci sono un bel po’ di cose”.
Quindi, vai a Venezia carico di progetti e impegni?
“Sì, speriamo che continui così, io sono speranzoso. Intanto, vado a beccarmi questo premio che mi fa un enorme piacere, partirò domenica e lunedì mi daranno questo premio in pompa magna. Poi, ritorno e vediamo di continuare a lavorare come da buon soldato dello spettacolo”.
La Mostra del cinema di Venezia ha sempre quel fascino incredibile?
“Particolare, certo”.
Hai un motto nel lavoro e nella vita?
“Io credo che questo sia un lavoro dove a parte tutte le altre cose, cioè innanzitutto talento, innanzitutto studio, innanzitutto fortuna, ci vuole molta pazienza e la pazienza è dettata solamente dalla forza di volerlo fare veramente questo lavoro, perché è un lavoro molto duro, con molti sacrifici, dove si piangono molte lacrime e si sparge molto sudore e sangue, come direbbero gli irlandesi. Ai giovani che vogliono intraprendere questo mestiere dico: abbiate molta pazienza, molta tolleranza. Mastroianni diceva, a proposito del cinema, ‘se ci pagassero per le attese e per la pazienza che abbiamo saremmo ricchi e, forse, questo lavoro lo faremmo anche gratis, perché ci piace talmente tanto che non ne possiamo fare a meno’. Ecco, questa frase racchiude il senso di questo lavoro”.