“Banksy e la ragazza del Bataclan” baluardo dell’umanità
In queste ore buie di spari, violenze e spargimento di sangue in più parti del mondo, e in cui chi governa rischia di perdere il senso dell’esistenza a vantaggio di ideologie e prospettive che non mettono in primo piano l’essenza dell’umanità, resta solo l’arte a farsi carico del richiamo al bello e ai valori di pietas che implicano rispetto incondizionato verso l’altro. Così, al di fuori delle logiche degli ascolti tv, Rai5 manda in onda ieri, 8 novembre, in prima serata, il documentario “Banksy e la ragazza del Bataclan”, diretto da Edoardo Anselmi e prodotto da GA&A Productions e Tinkerland, in linea con la propria mission che dovrebbe essere valorizzata e posta in primo piano, perché l’arte e il bello sono l’unica bussola per orientare il cammino della civiltà e della buona convivenza. In quest’ottica, il regista Anselmi, a quattro mani con Claudio Centioni, scrive un documentario che addita la street art come una delle forme più autentiche di protesta civile, pur nella sua natura ambigua. In particolare, nella nota stampa il cineasta parla di “realtà schizoide e contraddittoria della street art: da un lato protesta contro le ingiustizie sociali, dall’altro sempre più inglobata nella sfera istituzionale”, sottolineando che “il mondo della street art vive di una doppia natura: da un lato origina dalla clandestinità, è notturno, fatto di ombre e lampioni, dall’altro vive di giorno, quando diventa visibile al pubblico dei passanti”. Così Anselmi spiega che il suo “approccio visuale al racconto” oscilla qui “tra questi due aspetti concomitanti: ‘notturno’ e pop”, portandoci indietro al 13 novembre 2015, quando al Bataclan di Parigi persero la vita 90 persone, una delle più crudeli stragi terroristiche rivendicate dall’Isis in Europa: quella stessa sera la capitale francese fu colpita in più zone da diversi attentati. A distanza di tre anni da quel giorno, Banksy dà vita sulla porta di uscita di emergenza della sala dei concerti all’opera “La Ragazza Triste”, che diventa quasi un luogo di pellegrinaggio per i francesi che vogliono raccogliersi in ricordo delle vittime. Ma qui accade un nuovo e ignobile sfregio, contro ogni logica di pietas. Il 26 gennaio 2019, nascosti dall’oscurità, tre uomini incappucciati tagliano con una smerigliatrice i cardini della porta di uscita di emergenza del Bataclan, dove il noto street artist britannico aveva realizzato, solamente sei mesi prima, l’opera in omaggio alle vittime dell’attentato, provocando rabbia e indignazione in milioni di europei. Di colpo, nel giugno del 2020, in un anonimo casolare nella provincia di Teramo, abitato da due ignari inquilini cinesi, fanno irruzione i Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale, insieme agli ufficiali della Polizia Giudiziaria francese: la porta del Bataclan è lì, avvolta alla meglio in un lenzuolo. L’opera di Banksy viene ritrovata, quindi, e ben otto persone, tra responsabili del furto e collaboratori, vengono arrestate per poi essere processate, venendo condannate fino a due anni di carcere. Da allora, però, l’opera non è ancora tornata al suo posto: la porta è stata posta sotto sigillo e ancora oggi è oggetto di una controversia legale tra i proprietari dello stabile del Bataclan e la città di Parigi, perché entrambi se ne contendono la proprietà. Ognuno di loro ha intentato una causa civile e penale che, secondo quanto dichiarato dagli avvocati, durerà ancora diversi anni. Ed è qui che entrano in gioco il valore e la bellezza del documentario, ponendo in luce, attraverso una serie di interviste – da Fabrice Dubois (Comandante della Polizia Giudiziaria francese, presente la notte degli attacchi al Bataclan) a Franck Grillet Aubert (ladro della “Ragazza triste”), da Florence Jeux (ex manager del Bataclan) a Nicolas Laugero Lasserre (esperto di street art e di Banksy), solo per fare alcuni nomi -, le contraddizioni del valore di un graffito, verso cui l’umanità tutta guarda come l’ultimo baluardo possibile della speranza in un futuro migliore di convivenza tra civiltà, riconoscendosi nella matrice comune dell’essenza umana.