Le pennellate di Munch graffiano l’anima di chi le guarda

È vera gioia vedere da vicino le pennellate del norvegese Edvard Munch (1863-1944), cariche al tempo stesso di tormenti interiori e anelito alla vita. Forse è l’artista che più ha messo a nudo la sua anima. Ogni suo quadro è la pagina di un diario che rivela inquietudini e sofferenze, ma anche sete di esistenza serena. Dopo la tappa a Palazzo Reale di Milano, la mostra “Munch. Il grido interiore” è ospitata dall’11 febbraio al 2 giugno a Palazzo Bonaparte di Roma. “Siamo onorati ed orgogliosi di aver potuto realizzare questo grandioso progetto – dichiara Iole Siena, presidente di Arthemisia, società che organizza questo evento nel suo venticinquesimo anno (fondata ad aprile del 2000) – in collaborazione col Munch Museum di Oslo. Munch mancava da molti decenni in Italia e il grande successo riscosso nella prima tappa a Milano ci ha confermato quanto grande sia l’amore del pubblico verso questo artista immenso, capace di darci emozioni fortissime”. Sono cento i capolavori esposti, tra cui le iconiche “La morte di Marat” (1907), “Notte stellata” (1922–1924), “Le ragazze sul ponte” (1927), “Malinconia” (1900–1901), “Danza sulla spiaggia” (1904), nonché una delle versioni litografiche de “L’Urlo” (1895), la sua opera più nota che ha generato anche un emoticon.

Nei suoi 80 anni di vita, Munch soffrì tantissimo. Annotò: “La malattia, la follia e la morte sono stati gli angeli neri che hanno vegliato sulla mia culla e mi hanno accompagnato tutta la vita”. A 5 anni perde la madre e pochi anni dopo la sorella quattordicenne; durante la sua giovinezza muoiono anche il padre e il fratello; un’altra sorella viene rinchiusa in una struttura per malattie mentali. La stessa salute di Edvard è fragile, tanto da costringerlo a letto per lunghi periodi; sembra che nel 1919 si ammalò anche della cosiddetta “febbre spagnola”. Nel 1937 il regime nazista definì “degenerate” 82 sue opere ordinandone la distruzione, cosa che per fortuna non avvenne. La città di Oslo, in occasione del centenario della nascita, nel 1963, gli ha dedicato un museo, il Munchmuseet (che dal 2021 ha cambiato sede), i cui prestiti rendono per quattro mesi Roma polo di attrazione per i tanti che vorranno accostarsi a questo grandissimo artista che dagli anni Novanta dell’Ottocento ha cominciato la narrazione ciclica “Il Fregio della vita”, composta da numerose tele ed articolata in 4 temi con forti risvolti psicologici: “La nascita dell’amore”, “La fioritura e la dissoluzione dell’amore”, “La paura di vivere”, “La morte”.

La sua visione della realtà è profondamente permeata dal senso incombente e angoscioso della fine ed in questo progetto unitario è affrontata un’impietosa analisi della psicologia dell’uomo contemporaneo. Se in mostra non c’è “Sera nel corso Karl Johann”, che vede l’artista andare controcorrente, incurante del consenso della massa, è presente però un olio che raffigura quel viale. Cariche della carica erotica che fece scandalo a fine Ottocento, ci sono due versioni dell’opera (entrambe litografie) conosciuta anche come “Madonna” che restituiscono tutti i significati legati alla femminilità con cui Munch si sarebbe scontrato per tutta la sua esistenza: sacro e profano, sensualità del rapimento carnale, origine della vita nel concepimento e incombere della morte. Se la prof.ssa Alessandra Taccone, presidente della Fondazione Terzo Pilastro, che affianca Arthemisia in questo nuovo progetto (dopo la mostra su Botero), parla di Munch come uno dei “padri fondatori dell’arte moderna, contemperando nella sua poetica influenze impressioniste e post-impressioniste con il simbolismo ottocentesco, e qualificandosi come precursore unanimemente riconosciuto dell’Espressionismo”, è incredibile vedere da vicino opere non presenti sui libri di scuola che avvicinano il maestro norvegese a Paul Gauguin e talvolta anche alle pennellate dei Fauves, Henri Matisse in particolare. Quasi un omaggio all’Italia che lo ha ospitato, colpisce l’acquarello col ritratto di Raffaello, con note sulla vita dell’artista del Rinascimento sepolto al Pantheon, accostate all’olio e al disegno della tomba dello zio, lo storico Peter Andreas Munch, sepolto al Cimitero Protestante di Roma. “Come Leonardo da Vinci studiò l’interno del corpo umano dissezionando cadaveri – così io cerco di dissezionare anime. Egli doveva scrivere al contrario poiché all’epoca dissezionare i corpi era un reato. Oggi sono i fenomeni dell’anima che sembrano quasi pericolosi, frivoli e immorali da dissezionare”, scriveva Edvard Munch nel 1909.

Ma al di là della sua tavolozza, in mostra è presente anche il suo sguardo dietro la cinepresa, con dei video che testimoniano di un’epoca e di un maestro che si è raccontato e autorappresentato facendosi specchio di tutte le nostre paure, malinconie, ansie e desideri.

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