Ezio Guaitamacchi, in 360 pagine il cantastorie musicale umanizza le divinità del rock
“Una chiacchierata con me ti manda alla ‘nuvola numero 9’, come dicono gli inglesi e gli americani!“, cioè al settimo cielo citando da super esperto del mondo musicale anche l’ottavo album discografico del cantautore italiano Samuele Bersani. Sono al telefono con lo scrittore e giornalista Ezio Guaitamacchi che ha recentemente dato alle stampe “Amore, morte e rock ‘n’ roll – Le ultime ore di 50 rockstar: retroscena e misteri” (Hoepli), dedicato agli ultimi istanti di vita di diverse icone del rock (due le prefazioni: quella del cantautore, scrittore e conduttore Enrico Ruggeri e quella di Pamela Des Barres, tra le groupie più iconiche degli anni Sessanta e Settanta).
È un volume corposo, 360 pagine illustrate con immagini storiche e documentative: Ezio, quanti anni hai impiegato a scrivere questo libro?
“C’è un paesino vicino a Cannes, Mougins, dove Pablo Picasso aveva deciso di passare gli ultimi giorni della sua vita, infatti oggi nella parte vecchia del paese ci sono moltissime gallerie d’arte. C’è anche un bellissimo ristorante, l’Entrée des Artistes. Una volta andando a cena in questo ristorante, il proprietario mi raccontò un aneddoto. Molti anni prima si fermò al suo ristorante proprio Picasso (25 ottobre 1881, Málaga, Spagna – 8 aprile 1973, Mougins, Francia) che entrò e si sedette. Il ristoratore disse: ‘Maestro, ma che onore averla nel mio ristorante, mi potrà poi lasciare un ricordo del suo passaggio?’. Lui pensava alla classica foto, piuttosto che a una dedica. Passano 5 minuti, lui porta al tavolo di Picasso il vino e l’acqua, e Picasso lo guarda e gli passa un tovagliolino di carta su cui aveva fatto uno schizzo. Il ristoratore lo guarda: ‘Maestro, ma quanto tempo ha impiegato a fare questo disegno?’ Lui lo guardò e gli disse: ‘Due minuti e 70 anni’. Se capisci la metafora, ho risposto alla domanda, nel senso che ho impiegato un po’ più di due minuti a scrivere il libro, che ha avuto un coautore indispensabile che è Mister lockdown di Primavera, perché mi ha permesso in quel periodo di avere meno impegni pubblici e più tempo da dedicare al libro che era in ritardo cosmico. Probabilmente senza quel periodo di ‘arresti domiciliari’ non sarebbe mai uscito. Però un conto è la realizzazione di scrittura vera e propria, un conto è tutto il bagaglio di esperienza, conoscenza, fatto di incontri, racconti, conversazioni, relazioni, interviste, fatti in tanti anni di carriera nel mondo della musica, più ovviamente l’inevitabile ricerca di tipo bibliografico, documentaristico, ricerca online, etc.“.
Quali i criteri adoperati per la selezione delle fonti?
“Io ho deciso in questo libro, così come nella maggior parte delle cose che sto facendo negli ultimi dieci anni (libri inclusi, collane incluse, articoli, trasmissioni radio, trasmissioni tv, spettacoli) di raccontare soprattutto delle storie. Per cui io ho cercato di trovare un ragionevole compromesso tra la popolarità e l’importanza dei personaggi, cercando di unire l’importanza, la significatività, la ‘bellezza’ di alcune storie. Dico la ‘bellezza’ e so che raccontando le ultime ore appare un po’ forzato questo mio lessico, però in realtà mi sono reso conto che ho voluto raccontare delle storie che umanizzassero questi personaggi che noi consideriamo delle divinità, dei semidei. Anche perché, nel momento del trapasso, diventano come noi. Quindi già passano da uno status divino, in qualche modo, ad uno umano, purtroppo mortale. Per cui ho cercato di selezionare in quel modo lì, però puntando molto sulle storie, perché sono storie bellissime, straordinarie, come sono state straordinarie le vite e le opere dei protagonisti di queste storie, perché anche le loro morti – laddove sono a volte misteriose, a volte violente, a volte cruente, a volte piene di ipotesi stravaganti ma anche a volte poetiche, romantiche o addirittura artistiche (viene da pensare a David Bowie) – valgono la pena di essere raccontate, anche da prospettive diverse da quelle dalle quali sono invece spesso raccontate“.
Perché la scelta di un raggruppamento per tipologia di “crimine” degli ultimi istanti di vita delle star musicali?
“Perché facendo riviste musicali – ho fatto almeno per trent’anni il direttore di riviste musicali e da altrettanto tempo dirigo collane di libri – una deformazione professionale è quella che ti costringe a pensare alla struttura, al formato, di qualsiasi cosa tu cerchi di realizzare. Ad esempio, di solito, io ti parlo dei saggi perché il mondo in cui mi muovo io è quello. Io ho scritto venticinque titoli di cui uno è un romanzo, peraltro un giallo musicale, tutti gli altri sono saggi. Per cui la cosa importante è identificare la struttura come se fosse lo scheletro della tua opera, ma per fare quello devi avere un criterio. Ovviamente, facendo saggi storici, il criterio, in genere più logico, è quello cronologico, perché è quello che segui per raccontare una storia dall’inizio alla fine. In questo caso, ho pensato di utilizzare questo criterio che aggrega, se vuoi, le cause di morte. Però è brutta dirla così, suona macabro, allora ho cercato di mantenere lo stesso criterio, però dando almeno dal punto di vista estetico dei titoli a queste aggregazioni, a queste sezioni del libro che sono titoli di canzone, sufficientemente espliciti per rendere meno macabro il mio criterio aggregativo“.
La notizia in cui ti sei è imbattuto, anche trattandola di nuovo, che ti ha spiazzato di più?
“Alcune cose non le avevo neanche trattate. Molte delle morti di cui parlo sono avvenute anche negli ultimi anni. Diciamo che più che una notizia, ci sono state delle storie che mi hanno più colpito, alcune perché erano storie molto commoventi, mi viene in mente quella di Lou Reed e Laurie Anderson, la morte di Lou Reed (New York, 2 marzo 1942 – Southampton, 27 ottobre 2013), una morte quasi poetica. Vuoi che io ho conosciuto i soggetti, vuoi che conosco il posto dove è successo, vuoi che anche a volte hai delle immagini, delle percezioni degli artisti che poi non sono esattamente quelle vere, tu ce l’hai in base a come tu ti immagini il personaggio. Oppure quella di Leonard Cohen (Montréal, 21 settembre 1934 – Los Angeles, 7 novembre 2016), un’altra morte poetica, un personaggio che era un poeta. Però mi hanno colpito tante storie. Ho cercato di raccontare la morte di John Lennon (Liverpool, 9 ottobre 1940 – New York, 8 dicembre 1980), di cui ricorre il quarantesimo anniversario della morte, morto a 40 anni, quel quaranta un po’ maledetto per lui. Ho provato a raccontarla un po’ dalla prospettiva della moglie, di Yōko Ono, la donna più odiata della storia del rock. La incolpavano di essere stata lei causa dello scioglimento dei Beatles. Però è un racconto bellissimo, anche nella sua drammaticità. Poi nell’ultimo viaggio, praticamente un anno fa, nel gennaio del 2020, io ero a New York, ed ero proprio lì al Dakota. Sono stato lì altre volte, ma ero andato perché alla fermata della Metro, alla 72esima strada, c’era un’istallazione bellissima fatta da Yōko Ono. Per cui ero voluto andare a vedere, fotografare, etc. Quando risali le scale della Metro arrivi proprio di fronte all’ingresso del Dakota, cioè nel posto dove John Lennon fu assassinato. Allora il fatto che io ho avuto anche la fortuna, l’opportunità, se vuoi anche la determinazione, nel viaggiare. Ho scritto qualche anno fa il libro ‘Atlante Rock’ che era la summa di tutti i miei viaggi in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Irlanda sempre alla ricerca dei luoghi in cui hanno composto le canzoni, si erano amati, avevano litigato, avevano fatto grandi concerti, oppure erano morti. In questi posti qui hai la percezione, tu vai e ti immagini cosa avrebbe potuto essere, poi l’idea che uno te l’abbia raccontata, personaggi vicini a loro, amici. Io ho parlato, ho fatto un programma televisivo, su queste cose lì, ho raccolto tantissime informazioni, ho un sacco di racconti. Però sono tante le morti, quelle misteriose, quella di Kurt Cobain (Aberdeen, 20 febbraio 1967 – Seattle, 5 aprile 1994), che ancora oggi non è proprio completamente chiara, archiviata come suicidio, ma c’è chi parla di complotto, c’è chi parla di altre storie. Sono tante che mi hanno colpito, anche se – e questo è il motivo del titolo – ho cercato di capire che cosa ci fosse dietro dal punto di vista del sentimento, ecco perché si chiama ‘Amore, morte e rock’n’roll’, perché dietro alle morti di molti di questi artisti ci sono o grandi storie d’amore o l’assenza dell’amore. Quindi la solitudine, il vuoto che spesso è stato anche ‘complice’ del delitto. Quindi questa è anche la chiave che ho voluto dare ai miei racconti“.
Avevi un mito musicale di cui ora non hai più stima dopo questi approfondimenti?
“No. Io distinguo molto. Sai che ti parlano della morte di Maradona con tanta retorica. Io scindo nettamente la vita privata dall’artista. La sua vita non è la nostra vita. Questi artisti hanno dato tanto a noi, quello che hanno fatto loro magari ha riguardato le persone che erano vicine loro, io non voglio neanche dire se hanno commesso delle azioni criminose dovevano essere giudicate per quello. Pensa a Johnny Depp o a Kevin Spacey, un artista fenomenale a cui hanno praticamente raso a suolo una carriera… Questo vuol dire privare il pubblico dell’opera di un artista. Se poi l’artista è una brutta persona quello è un altro discorso che viene giudicato in altra sede. Per cui certo magari tu ti fai un’idea del personaggio, ma è una cosa anche quella un po’ fasulla oppure dice ‘ah, che figata’ è proprio come me li immaginavo e il cuore ti si riempie. Io credo che la vita privata può avere un valore importante solo se inficia l’opera dell’artista stesso. Il fatto che alcuni di questi siano morti in maniera talvolta anche stupida, ecco quello è un peccato, un delitto in senso lato, perché priva noi di tanta gioia. Il fatto che Amy Winehouse muoia a 27 anni, ti fa un po’ arrabbiare, perché un conto è negli anni Settanta, ma nel 2011 a Londra una ragazza che aveva il mondo in mano e che non è stata aiutata da chi le voleva bene, ha privato noi di tanta musica bella. Per non parlare di Jimi Hendrix o di Janis Joplin o di Jim Morrison, ma anche John Lennon che alla fine muore a 40 anni: quante canzoni avrebbe potuto fare ancora? Tantissime, no? Lì è stato uno che gli ha sparato e fine della storia… Ma intendo dire che a me non è che sia cambiata la percezione, direi di nessuno di questi. Ma non mi è neanche cambiata nel momento in cui ho intervistato artisti, e non ti faccio i nomi, che per me erano degli idoli e li ho trovati delle brutte persone in quella mezz’ora, 40 minuti in cui ho fatto l’intervista. Chi se ne frega… io continuo ad ascoltare la loro musica. Tutta la storia della mia infatuazione per il lato oscuro o per le morti degli artisti – qualcuno dei miei amici scherzando mi dice che faccio lo Sherlock Holmes del rock – nasce una dozzina di anni fa perché una mia amica che si chiamava Lana Clarkson viene ammazzata da un signore che si chiama Phil Spector, il più grande produttore del pop-rock, quello che s’inventò i gruppi femminili che piacevano tanto a Amy Winehouse, che produsse Tina Turner, ‘Let It Be’ dei Beatles e tantissimi altri, che era un pazzo scatenato, amante delle armi, che, a un certo punto, va a Los Angeles all’House of Blues (una catena di locali fondata da Dan Aykroyd dei Blues Brothers), alla via Happy Room dove arrivavano solo le persone ricche e famose, e c’era questa bellissima ragazza che faceva l’hostess lì. Era un’attrice, arrivata ai 35, 40 anni, una bellissima giovane donna, che accoglie questo produttore che poi a un certo punto la invita nel suo castello – perché questo aveva, non una casa, ma un castello stile Disney – dopodiché giocherellando con la pistola l’ammazza. Io mi ricordo che quando venni a sapere di questa cosa comprai subito un libro che era una specie di instant book con la biografia di Phil Spector e nel capitolo finale c’era il racconto delle ultime ore di Lana Clarkson con questo episodio, e lì un po’ per l’affetto verso la ragazza, un po’ per la curiosità di narrazione di una storia che io ho detto potrei raccontarla un po’ per tutti i grandi personaggi, ecco che sono andato a vedere quell’aspetto lì. Per cui, però come ti dicevo prima, anche per Phil Spector che ha ucciso la mia amica – su questa storia hanno fatto un film con Al Pacino nel ruolo di Phil Spector (‘Phil Spector’ è un film per la televisione del 2013 scritto e diretto da David Mamet, e interpretato da Al Pacino e Helen Mirren, ndr), quindi anche un film importante – io ti posso dire che lui per i dischi che ti ho citato piuttosto che le varie opere che lui ha fatto anche con George Harrison etc., era, è e rimarrà uno dei più grandi produttori di musica pop-rock della storia. Come essere umano è una brutta persona, un pazzo e in questo caso anche un assassino. Per cui è giusto che sconti le sue pene in prigione come lui in questo momento è. Questo, per dirtela anche su una roba che è personale, io faccio il distinguo“.
Secondo te perché tanti misteri attorno a queste leggende del rock?
“Perché alcune cose sono capitate tanti anni fa e sono state frutto magari di indagini poco accurate, perché la popolarità dei personaggi spinge sempre l’opinione pubblica ad avere delle risposte immediate. Ti riporto ancora al caso di Maradona, adesso è venuta fuori la storia del medico… mi ricorda Michael Jackson, mi ricorda Elvis Presley, mi ricorda Prince, dove dietro a queste morti c’erano sempre questi medici più o meno consenzienti che fornivano, nel caso degli artisti che ti ho citato, ma probabilmente anche nel caso di Maradona, tutto quello che questi artisti chiedevano in termini di ricette piuttosto che sostanze etc. In America li chiamano Doctor Feelgood, i dottori che ti fanno star bene, non so come dirti, ma dietro a queste vicende c’è stato e c’è sempre un alone di mistero, adesso magari non sono più tanto le rockstar, ma dipende anche da chi è il personaggio in questione… Sono vicende che fanno clamore, sono morti come quella di Maradona che commuovono il mondo. Quando morì Elvis io ero negli Stati Uniti e ti garantisco che era peggio di quello che sta succedendo adesso con Maradona, cioè i giornali, le televisioni, le radio, non c’era altro, passava solo la musica di Elvis, fu lutto nazionale vero. Ti puoi immaginare quando uno dice, sì, ma com’è morto? Elvis Presley muore sul gabinetto della sua casa, una morte che neanche un teatrante un po’ cinico avrebbe potuto mettere in scena, una roba… il re del rock che muore in bagno per cui sospetti… poi qualcuno dice che non è mai morto, cioè che Elvis è vivo. L’han detto di lui perché il mito, la passione, quando hai così tanto affetto di personaggi pubblici che hanno, in un modo o nell’altro, non dico cambiato la vita ma contribuito a renderci le vite più belle, sorridenti, non vorresti mai che morissero, mai, li vuoi sempre fighi, in forma se sono degli sportivi, anche belli se sono personaggi di spettacolo, in quel caso la morte li cristallizza e rimangono sempre giovani e belli, e quindi in qualche modo è colpa del pubblico, del troppo amore che comporta a sapere la verità, un po’ di morbosità su quel fronte là, o l’amore che addirittura fa sragionare e dire: ‘no, ma non è morto, sarà da qualche altra parte’, ‘Maradona chi sa dov’è’, però noi lo vogliamo sempre vedere con la maglia dell’Argentina che smarca 18 giocatori nel tripudio dei tifosi o vederlo sul palcoscenico cantare ‘Break on Through (To the Other Side)’ o suonare in maniera divina come sapeva fare Jimi Hendrix o ballare come faceva Prince quando suonava la chitarra Jimi Hendrix. Io credo che questi idoli qui nel nostro immaginario non moriranno mai, soprattutto però, e questo è oggettivo, non moriranno mai le loro opere. Loro esseri umani purtroppo finiscono in cenere, ma le loro opere vivranno in eterno e in qualche modo li rendono immortali“.
Dove pensi siano state sparse le ceneri di Freddie Mercury?
“Questa cosa l’ho scritta per quel che ne so io, nel senso che lui – e questo credo sia risaputo da tutti i fan – nonostante la sua un po’ confusa sessualità, o forse neanche tanto, ha sempre identificato in questa sua fidanzata, che si chiama Mary Austin, l’amore della sua vita. È a lei che lui lascia gran parte dei suoi beni ed è a lei che lascia il compito di non rendere pubblico il luogo dove lei avrebbe sparso le ceneri, ammesso che le abbia veramente sparse. Per due motivi. Uno perché non dimentichiamoci che muore nel 1991 per Aids e in quel momento l’Aids non era un virus come quello che sta adesso infestando il mondo, che è un virus tragicamente contagioso e diffuso ovunque ma non ha un retrogusto peccaminoso, è una sfiga che è capitata. L’Aids viene visto quasi come un castigo divino nei confronti degli omosessuali. Per cui un po’ non voleva che qualche pazzo profanasse in virtù di un cattolicesimo, di un integralismo religioso esagerato. E poi per evitare che un esagerato numero di fan potesse trasformare quel luogo in una sorta di circo. Per cui nessuno lo sa. E anche quando apparve quella lapide nel cimitero di Londra in cui sembrava che fosse stata messa lì l’urna, Mary Austin prontamente smentì, dicendo che non era vero, che quello era un segreto, una promessa segreta che aveva fatto lei a Freddie nelle ultime ore di vita e che non avrebbe mai potuto rivelarlo“.
Sì, questo l’ho letto nel libro. Vorrei sapere se tu ti sei fatto un’idea del posto che Mercury avrebbe scelto per accogliere le sue ceneri…
“No, io ho un’idea su David Bowie, ma perché me l’hanno detta. Cinque anni fa io ero andato negli Stati Uniti a Woodstock perché, oltre ad essere il luogo che ha fatto sognare milioni di giovani negli anni Sessanta, lì abita un amico che costruisce delle chitarre bellissime di cui io sono orgoglioso possessore. Per cui un’estate ero passato da lui, ci siamo visti e, parlando dei musicisti che ancora vivono a Woodstock, lui mi menzionò e io non lo sapevo allora il fatto che vivesse lì Bowie (Londra, 8 gennaio 1947 – New York, 10 gennaio 2016). Però poi mi disse: ‘Sai, è un po’ di tempo che non lo vediamo, mi hanno detto che è malato. Questo fai conto cinque mesi prima della morte. Quando poi sono tornato in Italia, io avevo ricevuto il comunicato dalla casa discografica che sarebbe uscito ‘Blackstar’, quello che poi rimarrà il suo epitaffio artistico-musicale, il suo ultimo album, e poco dopo anche un altro comunicato che diceva che Bowie stava preparando un tour mondiale proprio per portare la musica di ‘Blackstar’ sui principali palcoscenici del mondo. Lì mi è venuto in mente il mio amico e forse ho pensato: Bowie è partito o lui mi ha detto una corbelleria. Poi Bowie muore, sappiamo tutti com’è andata. Sempre quando ti ho menzionato che ero a New York, quello stesso viaggio di neanche un anno fa, io sono andato a Woodstock per degli appuntamenti e delle interviste da fare e sono andato a cena con questo stesso mio amico, che per la cronaca si chiama Joe Veillette, costruisce chitarre fantastiche, e gli ho detto: ‘Cavoli, mi avevi raccontato questa cosa di Bowie avevi ragione’. E lui mi ha spiegato dov’era il posto, cioè dov’era questa casa, tra l’altra nascosta in mezzo alla natura, un posto fuori dal mondo, dove Bowie e sua moglie vivevano anche perché lui aveva registrato un paio di dischi in uno studio che era a un quarto d’ora di strada e amava moltissimo questo posto e sempre il mio amico mi ha detto: ‘Sai, si dice che la moglie abbia sparso lì le ceneri del marito’. Mentre alcuni dicevano che le aveva sparse a Bali… Allora, se vuoi sapere come la penso io, mi piacerebbe credere al mio amico, pensare che David Bowie, un po’ come John Lennon, dall’Inghilterra abbia deciso di spostarsi in America, aveva scelto New York come sua città d’adozione – perché Woodstock è a un paio d’ore di macchina da New York – e addirittura a Woodstock, il posto più evocativo per noi appassionati di musica, ha voluto che lui artista straordinario, musicista, icona del rock riposasse lì, ecco questo è quello che mi piacerebbe. Io non lo so, io faccio il giornalista musicale, nonostante questa nomea appunto dei miei amici da Sherlock Holmes, io non faccio il giornalista investigativo, nemmeno il criminologo, racconto storie, cerco di raccontare delle storie, ovviamente sono storie basate su fatti o su informazioni che mi sono state dette e che ho raccolto però se non ci sono delle dichiarazioni ufficiali che peraltro sono tutte da dimostrare… credere agli artisti è una bella cosa, ma se tu hai delle fonti sicure, a volte smentisci le dichiarazioni degli artisti…“.
Tre motivi per leggere questo tuo libro?
“Innanzitutto, insisto sul discorso delle storie. Sono storie anche negli ultimi attimi straordinarie quanto le vite e quanto il valore artistico dei protagonisti. Poi, c’è una mia speranza, visto che queste storie sono arricchite con fotografie, immagini documentaristiche e il suggerimento di due brani musicali che sono la colonna sonora, secondo me, ideale del racconto, brani che sono anche legati, che non sono necessariamente i più famosi, per cui il benefit potrebbe essere un obiettivo che, leggendo questo libro, magari qualcuno appassionato e curioso può scoprire, o a volte riscoprire, personaggi che o non conosceva o ha sentito solo nominare, magari leggendo quella storia o ascoltando le musiche che suggerisco, si può capire che sarebbe bello approfondire ulteriormente la conoscenza soprattutto attraverso le opere. E terzo perché sono personaggi quelli che racconto nel libro, i protagonisti delle mie storie, sono personaggi che nei secoli a venire verranno ricordati come eccellenze assolute della razza umana, artisti che una volta si definivano con questa musica personaggi della sottocultura o al massimo controcultura, ma adesso sono entrati di diritto finalmente nell’ambito della cultura ufficiale, basti pensare che Bob Dylan, che spero diventerà parte dei miei racconti almeno di questo tipo il più lontano possibile, ha ricevuto il Nobel per la Letteratura, quindi la massima onorificenza culturale che abbiamo noi umani, e il fatto che quando uno di questi artisti purtroppo ci lascia la notizia della sua dipartita è nelle pagine principali dei quotidiani, dei siti, dei telegiornali, dei radiogiornali, cosa che una volta neanche a immaginarselo perché non era così, erano personaggi molto meno conosciuti, molto meno popolari. Oggi, grazie anche a queste piccole grandi pubblicazioni come la mia, adagio, adagio sono entrati ufficialmente nel mondo della cultura e soprattutto diventeranno alla stregua dei Pablo Picasso che ti ho citato prima, degli Chopin, Mozart, di tutti i grandi produttori di arte, di cultura che abbiamo avuto nel corso degli anni con la fortuna che molti di questi, non i protagonisti del mio libro, ma i loro amici ancora in vita, cioè i grandi maestri, lockdown a parte, abbiamo ancora la chance di vederli dal vivo, e quindi è come vedere appunto Picasso dipingere, Hitchcock girare un film, Shakespeare in teatro o cose di questo tipo“.
Se dovessi scegliere solo tre artisti tra tutti i 50 presi in esame, chi racconteresti in delle monografie?
“A un paio l’ho già dedicata, uno è stato il primo amore di gioventù e si chiamava Jimi Hendrix, perché fu il mio idolo quando ero ragazzino. Io ho iniziato a suonare la chitarra cercando di emularlo inutilmente, e un altro è John Lennon a cui ho dedicato un’altra monografia. Però se potessi, ma purtroppo non sono artisti che potrebbero avere un mercato, almeno per quello che mi richiede la casa editrice di cui dirigo la collana di musica, cioè la Hoepli, certo che personaggi magari meno conosciuti ma con una vita interessante e delle opere fantastiche sarebbero altrettanto belli da raccontare. Mi riferisco a Gram Parsons, uno dei protagonisti delle mie storie che è stato definito da una dei due autori delle prefazioni, la mia amica che si chiama Pamela Des Barres, ‘il più grande poeta’ con cui lei ha avuto a che fare. Mi piacerebbe scrivere di Lou Reed, magari insieme a Lori Anderson perché li ho conosciuti tutti e due, e Lori è un’artista davvero straordinaria che potrebbe raccontarmi il lato luminoso di Lou Reed e non quello scuro che tutti noi siamo abituati a vedere. Oppure ancora mi piacerebbe anche scrivere bene di Amy Winehouse, visto che era un po’ distante dal mio gusto musicale, ma la cui morte mi ha fatto molto arrabbiare perché non è concepibile che una ragazza così a 27 anni oggi possa morire nell’indifferenza di chi avrebbe dovuto volerle bene. Poi io non sono proprio specializzato a fare le monografie, preferisco trovare delle idee per raccontare storie che forse sono anche un po’ più interessanti per me, anche come lettore non solo come autore“.
Il libro ha un fluire leggero, reso accattivante da molti aneddoti: è questo il segreto della tua scrittura?
“Detta così mi fai una domanda come se fossi uno scrittore vero! Non mi considero tale. Io faccio talmente tante cose con la musica come focus che diciamo che quello stile lì è lo stesso che io applico negli spettacoli, alla radio, in televisione, quando insegno giornalismo musicale. È quello che mi viene sostanzialmente naturale, non è che ci sia dietro uno studio da quel punto di vista lì, non è che io ho messo scientificamente a punto un certo linguaggio. Credo che se tu mi senti parlare sostanzialmente somiglio a quando io scrivo perché è il mio modo di esprimermi. Per cui ti racconto la storiella di Picasso, quella di David Bowie o di Joe Veillette a Woodstock e te la scrivo così più o meno, è naturale per me raccontarti in questo modo. È un po’ la mia visione, il mio linguaggio, e mi viene così. Poi è ovvio che l’esperienza, l’emulazione di altri che hai visto, hai letto, sentito che ti piacevano o erano più nelle tue corde ti aiuta a mettere meglio a fuoco, però non c’è una scelta scientifica dietro. Poi a volte è anche il frutto del riscontro, cioè se tu fai uno spettacolo e vedi la gente che ti guarda, ti sorride, ti applaude, piuttosto che scrive, ti manda la foto del libro sulla tomba di Robert Johnson, dicendo ‘Ecco leggendo il tuo libro sono voluto anch’io andare lì’, vuol dire che comunque hai fatto una roba che ha avuto un effetto positivo“.
Adesso stai scrivendo un nuovo libro?
“No, adesso sto cercando di trasformare in programma radio e in programma televisivo ‘Amore, morte e rock’n’roll’, sto lavorando su quel fronte lì. Per quanto riguarda la scrittura, no, anche perché io non faccio solo lo scrittore, oltretutto dirigo la collana di libri per la quale è uscito questo testo qua, quindi al momento sto lavorando su altri tre, quattro libri, ma fatti da miei autori che faranno parte della collana. Che cosa sarà il prossimo libro in questo momento non lo so ancora“.
Tua moglie “Nico”, a cui il libro è dedicato, è appassionata di musica come te?
“La Nicoletta? Sì, lo è ma non come me. Noi ci siamo conosciuti quasi trent’anni fa a un concerto, o meglio l’ho conosciuta perché è venuta insieme a un mio amico a vedere un concerto. Per cui a lei sicuramente piace la musica, non tutta quella che piace a me, magari ha dei gusti simili, ma a volte diversi, e poi non è assatanata come me. Ha un approccio alla musica normale come giustamente deve avere chi non fa della musica il proprio lavoro o un hobby talmente monopolizzante da portarti fuori di testa. A lei piace molto conoscere le persone. Anzi, in alcuni casi, mi costringe a portarla nei camerini, che è una cosa che io detesto perché gli artisti dopo un concerto non hanno la minima voglia di star lì a dire due parole e farsi fare il selfie, e però ecco quella è una roba normale per gli artisti che le piacciano di più. È stata bravissima perché ha condiviso anche tanti viaggi, tante cose dove in teoria magari doveva essere una mezza vacanza, poi diventava qualcos’altro. Per sua fortuna, devo dire menomale, oggi frequento meno i negozi di dischi perché per un periodo poveretta io cercavo di trovare qualcosa che potesse interessare a lei, come negozi di scarpe o borsette, così mentre io stavo nel negozio di dischi lei stava a fare shopping da qualche altra parte. Quindi ha avuto molto pazienza, gliela riconoscerò per tutta la vita“.