Kublai: bisogna lasciarsi trasportare dalle note…
Si congeda con un caloroso “ce la faremo” che mi allarga il cuore. È Teo Manzo, 32 anni di Milano, cantante, autore e compositore. Questo mese ha varato il primo album come Kublai dall’omonimo titolo “Kublai”, frutto della collaborazione con Filippo Slaviero: entrambi sono autori delle musiche, i testi portano la firma di Teo, mentre Filippo ha curato produzione, registrazione e mixaggio.
Teo, come nasce il nome Kublai?
“L’ho scelto perché avevo dato questo titolo al mio disco che raccontava, tra le altre cose, di questo dialogo un po’ immaginario tra questo Kublai, imperatore mongolo, e Marco Polo, prendendolo a prestito dalle ‘Città invisibili’ di Italo Calvino, che è un libro bellissimo. Quindi in realtà è nato come titolo dell’album. Poi, essendo venuto fuori un disco molto diverso da quello che ho sempre fatto e in grande discontinuità, ho voluto cambiare nome, o meglio lanciare un nuovo progetto con questo nome“.
Quali le caratteristiche di “Kublai” che ti hanno portato al cambiamento di rotta?
“Per un discorso di sound, di sonorità, perché è un album che si distacca un po’ dalla tradizione cantautorale che è quella da cui vengo, dei grandi cantautori italiani. In questo album non è che non ci sia questo elemento, però viene data molta importanza al contesto sonoro e anche ai significati della musica, quindi i testi sono importanti, ma non sono l’unica cosa che conta. Ciò che caratterizza la musica cantautorale, e tutti i generi che discendono da lì, è il testo predominante, questo album è diverso in questo senso: dà importanza all’armonia, alla melodia, al canto. In questo disco non è che le tracce coincidano esattamente con le canzoni, diciamo che all’interno delle tracce ci sono anche delle canzoni, poi ci sono delle arie, ci sono delle parti strumentali: è tutto pensato non per fare un pezzo che inizia subito e si esaurisce in tre minuti, ma per fare un percorso. Diciamo che tu entri nell’album dalla traccia uno e devi percorrerlo tutto per arrivare all’uscita: è un po’ una concezione diversa, non si può fare tanto un ascolto spot di questo disco, bisogna un po’ lasciarsi trasportare“.
Mi chiarisci la definizione data all’album di “dialogico”?
“È riferito alla scena che viene messa in campo, nel senso che i testi delle canzoni sono come la trascrizione di un dialogo, che avviene tra due personaggi che sono in scena e che si scambiano delle battute quasi teatrali. Quindi il testo in realtà non è un narratore esterno che racconta una storia, il testo è proprio il discorso diretto tra questi due, in questo senso è dialogico, nel senso che in scena ci sono due personaggi che fanno un percorso insieme e poi ad un certo punto uno dei due decide di suicidarsi e quindi poi nell’ultima parte del disco rimane un’unica voce sulla scena. Questo è un po’ il significato, quindi diciamo che è ‘dialogico’ in questo senso, nel senso che i testi lo sono“.
Quando il libro di Italo Calvino ti ha ispirato questo progetto?
“In realtà è una cosa che ho capito ad un certo punto, nel senso che non è che io avessi premeditato questa cosa, io ho iniziato a scrivere queste canzoni che parlavano di questi due personaggi che erano due personaggi che potevo anche essere io e un’altra persona. Poi ad un certo punto mi è ricapitato in mano il libro di Calvino che avevo già letto da ragazzino, che è un libro che ho sempre amato molto e me lo sono riletto, e rileggendomelo ho capito che le canzoni che stavo già scrivendo avevano una bella analogia con il dialogo tra Kublai e Marco Polo. Quindi poi io ho deciso di dargli questo nome, però il significato in generale è proprio questo, il fatto che ci siano due amici che passano una serata insieme e uno dei due evidentemente è un po’ inquieto e quindi è una vicenda che potrebbe riguardare chiunque. Poi io gli ho dato questo cappello di Kublai per fare un gioco di riferimenti, di suggestioni. Io ho iniziato a scrivere questi pezzi non avendo in mente questa cosa specifica, l’ho scoperto a metà strada, come poi spesso avviene quando si fa musica. Si capisce quello che si sta facendo ad un certo punto, non è che uno parte già per forza con le idee chiare“.
Cosa rappresentano per te Kublai e Marco Polo?
“Rappresentano due personaggi che sono nati agli antipodi, quindi sulla carta non avrebbero nulla in comune. Il loro rapporto è molto bello perché è un incontro che prevede ci sia uno scambio culturale concreto, il fatto che Marco Polo viaggi sulla via delle Indie da mercante, quindi conosce benissimo tutto l’impero di Kublai e, invece, l’imperatore, pur essendo imperatore, magari non ha mai esplorato il suo impero, non consoce le meraviglie e questo paradosso è il fatto che Marco Polo nelle ‘Città invisibili’ racconti all’imperatore il suo stesso impero: lui è nato in un palazzo bellissimo ma non è mai uscito da lì. Quindi gli archetipi sono un po’ questi, un esploratore e un imperatore che però non conosce il mondo in realtà“.
L’album è stato anticipato dal singolo “Orfano e Creatore”, quali i significati di questo passaggio?
“Questo è uno dei primissimi brani dell’album, che coincide con quando vengono presentati questi due personaggi. Io dico presentati ma tutto questo è molto allusivo, non c’è nulla di preciso. Ci sono due personaggi, Orfano e Creatore. Sono due archetipi attraverso cui questi due personaggi vengono raccontati, cioè entrambi sono un po’ ‘orfani’ e entrambi un po’ ‘creatori’, come dice la canzone. ‘Orfani’ nel senso che Marco Polo è un personaggio rinnegato da suo padre che poi decide di viaggiare nella sua vita, e pure Kublai è in un certo senso orfano, nel senso che è l’erede di Gengis Khān che è stato un grandissimo imperatore mongolo, il più grande di tutti, il più osannato di tutti e lui è un po’ un figlio d’arte, è il nipote, ma deve sopperire a questa grandezza. E poi il ‘creatore’ è l’altro aspetto, cioè il fatto che tutt’e due si devono inventare un modo per avere un ruolo nel mondo. Questo è il senso del titolo. Poi dentro la canzone, in realtà, c’è ancora altra roba, nel senso che poi non c’è esattamente questo. Vengono presentati questi due archetipi attraverso due scene di vita, sono due strofe, ci sono due scene: la prima scena è quella di un abbandono, di una madre probabilmente, quindi l’orfano; e la seconda strofa è più una scena di un amore ritrovato. Insomma, ci sono tante cose. Io stesso mi rendo conto che raccontandole si mescolano un po’ però questo è il senso di questo album, il fatto che contenga molte cose perché possa dare a ciascuno un pezzettino che gli interessa“.
Essendo un album il cui racconto si dipana di traccia in traccia, quando si potrà tornare a fare i live, hai immaginato di presentarlo come un vero e proprio spettacolo narrativo più che in un concerto musicale?
“No, l’ho pensato come uno spettacolo musicale, anche se è una bella idea questa che dici, però andrebbe sviluppata da qualcuno che ha confidenza con quella cosa, io non ne ho. Io ho confidenza con la musica e l’ho pensata assolutamente come uno spettacolo musicale che sia proprio direzionato, quindi non devo stare lì a pensare come fare la scaletta dell’album, mettere questa canzone prima, quest’altra dopo, nel senso che questa è una storia unica, quindi so già che la scaletta è la tracklist dell’album. Poi certo, come dicevi tu, si possono pensare anche altri tipi di rappresentazioni o associazioni, assolutamente. Diciamo che si predispone, nel senso che ha uno svolgimento e ha una storia di sottofondo questo disco“.
Come mai hai scelto Kublai e non Marco Polo come nome?
“Mi piaceva il suono della parola Kublai, quindi la vera ragione è quella. In questo gioco Kublai è il personaggio protagonista in questo senso, nel senso che è l’autore di questo suicidio che poi avviene in questo album a un certo punto, e quindi è l’autore dell’omicidio di se stesso, quindi poi alla fine lui è quello che fa fatica a trovarsi un posto nel mondo, perché è schiacciato dalla pesantezza di un’eredità più grande di lui, che non sa gestire, è lui che ha una crisi esistenziale in un certo senso nel disco. Poi alla fine il nome è rimasto quello lì“.
Kublai si toglie la vita quasi come un atto alla “Jacopo Ortis”?
“Sì, se vuoi, perché no? Certo, una bella associazione. Poi ti ho detto, appunto, i significati che ci sono in questa storia sono molto archetipici, poi ognuno può volentieri dargli delle sfumature che preferisce, quindi assolutamente sì, se vuoi, sì. O, se vuoi, può essere la storia di un tuo amico. Scrivere musica in questo senso mi interessa. Scrivere musica che possa evocare tanti significati contemporaneamente perché questa è la chiave per poi arrivare anche ad emozionare chi hai davanti a prescindere da chi sia. Più che trovare una cosa che è comune a tutti, come fa tanta musica, che è il trip che usa tanta musica pop, nel senso di popolare, che piace a tanti. Anziché trovare una piccola cosa che appartiene a tutti si cerca di fare una sinfonia di emozioni, di spiattellare sulla tavola tante possibili attivazioni emotive da cui ognuno può attingere alla cosa che sente sua“.
Avendo fatto morire Kublai, il prossimo progetto discografico sarà con il tuo nome, Teo?
“No, è una bella domanda, ma credo di no. Credo che il nome resterà. Kublai forse è morto, però l’idea artistica che c’è dietro a questo progetto è qualcosa che è molto vivo nella mia testa, quindi penso che proseguirò con questo nome. Anche perché, cosa che non ti ho detto, e che ti aggiungo adesso, è il fatto che questo dialogo che c’è nel disco tra questi due personaggi è stato anche un po’ un metodo di composizione, nel senso che le canzoni non le ho scritte io da solo, ma le ho scritte con un producer, che è un mio caro amico, che si chiama Filippo Slaviero, e quindi diciamo che questo modello della collaborazione potrebbe ripetersi anche nei prossimi album, quindi terrei il nome Kublai“.
Cosa del carattere di te e Filippo vi unisce e cosa vi divide?
“Ci unisce il fatto che siamo ascoltatori abbastanza eterodossi, cioè ascoltiamo tanta musica di tanti generi diversi e abbiamo sicuramente una sensibilità e un orecchio affine che ci unisce. Ci divide al momento il lockdown perché non lo vedo da mesi e quindi al momento è questo quello che ci divide, per il resto lui è più producer, come dico io, più ‘smanettatore’ con le macchine, io sono un pochino più performer, sono un cantante, quindi abbiamo dei ruoli abbastanza distinti e la collaborazione s’incastra bene con lui. Poi credo che sia sempre un fatto di empatia quello di trovare dei collaboratori con cui funzioni. Io con lui mi trovo molto bene“.
Della tua precedente esperienza – mi riferisco al tuo primo album solista “Le Piromani”, che ti è valso diversi riconoscimenti, fino a ricevere, il Premio Fabrizio De André per la Poesia – cosa salvi e, invece, cosa butti?
“Non lo so, nel senso che non sono un nostalgico, quando faccio le cose poi non ci torno poi tanto su con la testa. ‘Le Piromani’ è una cosa di cui vado fiero, nel senso che come opera in generale è molto valida, secondo me, è poco valida come disco, come album, nel senso che è un disco poco arrangiato, un po’ abbozzato, sicuramente per colpa mia, che all’epoca ero molto ansioso di portarlo alla luce e quindi probabilmente mi sono lasciato un po’ così trasportare dalla fretta della cosa. Da un punto di vista musicale non credo che sia notevole. È notevole ‘Le Piromani’ da un punto di vista così ‘architettonico-letterario’, se mi passi il termine. Per quanto riguarda la poesia, continuo a farla, nel senso che la mia grande passione dopo la musica è scrivere in versi, quindi continuo a farlo ma sicuramente in un modo diverso da quando mi diedero quel Premio De Andrè, nel senso che ho un po’ cambiato il modo di scrivere, sto facendo una ricerca. Poi alla fine la verità è che a un certo punto gli artisti si dividono molto tra chi cerca di ripetere se stesso per confermarsi certe cose e chi cerca sempre di evolversi perché non si piace mai o comunque cerca sempre qualcosa di nuovo. Io faccio parte di questa seconda categoria. Nella vita si tiene tutto, tutte le esperienze vanno tenute, soprattutto quelle di cui non si è contenti, di quelle di cui non si va particolarmente fieri perché sono quelle che poi danno una direzione dopo“.
Quali sono i tuoi propositi per il 2021?
“I miei propositi sono sostanzialmente di provare, se si potrà, quando si potrà, suonare questo disco dal vivo, questa è la cosa a cui tengo molto, e poi continuare a scrivere musica, cosa che in realtà sto già facendo da casa. Mi sto già portando avanti. Poi purtroppo la verità è che in questo momento si possono fare pochi progetti, perché soprattutto nel campo musicale, se non hai la possibilità di programmare le cose praticamente non puoi fare niente. Direi che sviluppare il progetto di Kublai è il mio obiettivo, come hai detto tu, proposito“.
Hai scritto un pezzo o una poesia sul momento difficile che stiamo vivendo a causa del Covid?
“No, non in senso tematico, non ho scritto un qualcosa che parla di questa situazione, anche perché tendenzialmente io cerco sempre di evitare di fare dei riferimenti all’attualità perché è una cosa che mi distrae poi dai miei scopi che sono altri. Però sicuramente ho scritto dei versi in cui c’è qualche riferimento, più nelle poesie che nella musica. Nelle poesie c’è qualche riferimento, ma non c’è la tematizzazione perché la trovo un po’ pesante. Quando si scrive qualcosa in maniera tematica, quando tu dici premedito di parlare di questa cosa, è un po’ macchinosa come meccanismo, non mi piace tanto. Però senz’altro se uno riesce a mettere tutto ciò che prova dentro una poesia o dentro una canzone anche, lo si può fare anche senza esplicitare quello di cui si sta parlando, poi le emozioni escono da sole, non hanno bisogno di spinte tematiche“.
Allora senza spinta tematica, mi regali un tuo verso pieno di speranza per guardare al futuro?
“Mi prendi alla sprovvista, ti posso dire un augurio che è quello di volersi bene, di volersi un po’ bene, l’anno prossimo sarà sicuramente migliore di questo per forza di cose, quindi dedicarsi un po’ alla cura di se stessi, alla cura in tanti sensi, perché soprattutto quando ci sono questi momenti di crisi, vuoi economica, vuoi sociale, vuoi come quella che stiamo vivendo che è legata indirettamente alla pandemia, le persone tendono ad abbrutirsi, tendono ad avvilirsi. Quindi diciamo che prima di lamentarci del circostante, è sempre bene guardare a noi stessi e capire se stiamo bene perché è da lì che passano poi tanti malcontenti e tanti dispiaceri, non dallo status quo delle cose esterne, ma da come stiamo noi. L’augurio è di curarsi“.