The Poets: sapore anni Sessanta sulla scia dei musicarelli
C’è musica evergreen come quella che ha i colori anni Sessanta. Il gruppo bolognese The Poets rilanciando il loro album “Groovy!” ne sono la prova.
Matteo Cincopan, a livello emozionale com’è stato rimasterizzare l’album “Groovy!”?
“È stata una cosa complessa, perché il gruppo è finito, siamo tutti elementi esterni, però riascoltando le registrazioni contemporaneamente ci sei anche di nuovo dentro per cui devi trovare una media tra tutte queste emozioni, il te di vent’anni fa che magari ti fa anche un po’ di tenerezza riascoltarlo e il te di adesso per cui dici quella è stata una tappa intermedia del mio cammino, della mia formazione. Allora avevo dato tutto quello che potevo, adesso magari vedo tutti i limiti. Per il resto, è un disco – parlo qua a nome del gruppo – a cui rimaniamo tutti molto legati. Ci ha fatto molto piacere questa idea di affrontare questo remaster perché è il disco grazie al quale abbiamo avuto il primo contratto con la Misty Lane di Massimo del Pozzo, che poi ci ha stampato un Ep e un Lp negli anni successivi, in questo senso è un disco a cui dobbiamo molto. Poi, c’è stata l’esperienza umana, perché ai tempi lo registrammo in una casa sull’Appennino, vicino a Porretta, la casa del bassista, Lorenzo Mingardi, e siamo stati là dentro per una decina di giorni in uno stanzone dove avevamo messo gli strumenti, i letti e non siamo più usciti finché non avevamo finito di registrare, per cui è stata un’esperienza emotivamente, ma anche fortemente umana“.
Non vi siete mai pentiti di aver sciolto i Poets?
“A distanza di tempo c’è sempre stato qualche momento di nostalgia. Ci sono stati episodi in cui abbiamo detto ‘cavolo, però magari c’era tempo di fare un altro disco, forse anche due’. Però è anche vero che siamo arrivati allo scioglimento perché avevamo la percezione che il percorso fosse arrivato ad un dunque e o ci si evolveva e si diventata qualcos’altro oppure il gruppo era finito. Però un gruppo come i Poets fa molta fatica a diventare qualcos’altro perché nasce fortemente definito, per cui era anche molto facile tradirsi in questo senso, allora in tranquillità ci siamo semplicemente detti ‘l’avventura si chiude qui e magari faremo qualcos’altro’“.
L’idea di rimasterizzare l’album “Groovy!” è partita da te e gli altri hanno subito accettato volentieri l’idea, lasciandototi anche carta bianca, perché hai curato tu il lavoro?
“Sì, la rimasterizzazione l’ho curata personalmente. Matteo Ferretti, il batterista, adesso vive in Svizzera per cui per lui era proprio anche fisicamente molto scomodo prendere parte alle operazioni. Lorenzo vive a Firenze, era leggermente meno scomodo, però anche per lui non è stato così semplice. Ci è venuta in aiuto la tecnologia. Gli altri si sono detti disponibili, e anzi è una cosa che gli ha fatto molto piacere, per cui io ho iniziato ad importare in digitale tutti i nastri, a rimontare le sessioni di registrazione e poi man mano che il lavoro procedeva, glielo facevo sentire, magari ci scambiavamo delle opinioni, però fondamentalmente avevamo conservato anche i fogli di lavoro dell’epoca, per cui era molto facile rimanere fedeli al lavoro originale e semplicemente lavorare per migliorarlo“.
“Groovy!” rimasterizzato è uscito lo scorso settembre, anche vent’anni prima, nel 2000, era uscito nello stesso mese?
“Sì, era un’autoproduzione, per cui in realtà i tempi non erano molto lunghi di attesa, una volta che avevi il master e una volta che avevi fatto le copie di fatto il disco era già in giro, noi li vendevamo ai concerti. Lo abbiamo registrato in agosto e all’inizio di agosto e a metà settembre era ufficialmente fuori. Al primo concerto che abbiam fatto, avevamo già delle copie da vendere“.
Mi fornisci la guida all’ascolto di “Groovy!” vent’anni dopo: dirmi tutto quello che di essenziale c’è da sapere sul disco…
“Per quanto ci riguarda come gruppo, all’epoca ‘Groovy!’ è stata, pur essendo un’autoproduzione, un’idea molto complessa e, per i mezzi che avevamo, a tratti titanica. In più di un’occasione abbiamo avuto l’impressione di fare il passo più lungo della gamba. I Poets nascono come gruppo che si rifà ai gruppi degli anni Sessanta. Dopo un anno che scrivevamo canzoni più o meno in stile e avevamo iniziato a fare concerti, curando non solo l’aspetto del sound ma anche l’estetica del gruppo, abbiamo cercato di fare un disco, adesso non vorrei dire un concept perché le canzoni sono comunque slegate, è una raccolta di canzoni, non c’è un filo conduttore, però abbiamo cercato di estendere questa estetica anche proprio all’idea dell’album. Volevamo fare una cosa che sembrasse uscita dagli anni Sessanta, proprio per essere coerenti con l’immagine del gruppo che stavamo dando. Per cui abbiamo iniziato segretamente, non lo abbiamo mai detto a nessuno, però l’idea durante le registrazioni è stata quella di fingere di fare la colonna sonora di un musicarello, per cui abbiamo immaginato, meglio estrapolato dai film delle scene con Little Tony, Bobby Solo, Gianni Morandi, e abbiamo pensato di scrivere le canzoni che potessero stare su quelle immagini. In realtà, poi, terminate le registrazioni, abbiamo anche fatto una sessione fotografica con degli amici con cui abbiamo cercato di ricostruire alcune di quelle scene. Poi però non le abbiamo mai utilizzate perché diventava una cosa un po’ dispendiosa produrre un disco in autonomia con anche un libro di foto. Alla fine ci siamo dovuti dare una ridimensionata. Per cui il disco va ascoltato così, le canzoni vanno prese nell’immediato e vanno godute per quello che offrono e magari immaginarsele come colonna sonora a scene in stile“.
Ormai sono diversi mesi che è su Spotify, come è stato accolto?
“Piuttosto bene, è una cosa di cui ci stupiamo. Noi come gruppo siamo rimasti sempre underground, abbiamo girato, suonato, però quando il gruppo si è sciolto non avevamo avuto l’impressione di aver lasciato chissà quale segno. Io adesso, tra le altre cose, suono in un altro gruppo, storico in realtà di Bologna, sono da tre anni negli Avvoltoi, che hanno iniziato nel 1985 proprio come gruppo di revival beat e mi è capitato, da quando sono negli Avvoltoi, in più di un’occasione, a fine concerti, venire avvicinato da qualcuno che si ricordava di me perché ero nei Poets. Pian, piano ho iniziato a realizzare che pur nel nostro piccolo forse un segno lo avevamo lasciato. Allora da lì è iniziata la questione dei remaster. Prima abbiamo messo fuori il nostro ultimo album, The Poets, che era rimasto inedito perché il gruppo si è sciolto prima che potessimo pubblicarlo e ho visto che senza promozione faceva ascolti. Dopo abbiamo messo su Spotify ‘Surrealistic rain’ che è il nostro album uscito per la Teen Sound Records, che è una sottoetichetta della Misty Lane, e anche lì abbiamo costatato che degli ascolti c’erano. Il fatto che un gruppo che non esista più, i cui album sono promossi fondamentalmente sui canali social e da una manciata di radio private, ci ha molto rincuorato, per cui quando abbiamo visto che si avvicinava il ventennale di ‘Groovy!’, un disco a cui tutti e tre sentivamo di dovere molto e di cui abbiamo dei gran bei ricordi, abbiamo pensato di festeggiarlo degnamente. Anche qui abbiamo visto che fa degli ascolti. A ‘Groovy!’ abbiamo riservato un trattamento particolare, però sta andando, la gente lo ascolta e noi siamo molto contenti, anche perché ogni volta è una piccola riscoperta anche per noi“.
Voi avete fatto in tutto quattro album e un ep, cosa manca da rimasterizzare?
“Manca il nostro primo album, che abbiamo registrato a dicembre del ’99 e quello ci piacerebbe molto rimasterizzarlo, però purtroppo non sappiamo se si potrà mai fare perché i nastri non sono stati conservati nel migliore dei modi, risentono parecchio del tempo. Già non erano registrazioni buonissime di partenza, credo che ora come ora, siano decisamente improponibili. Però c’è di buono che in questi mesi ho rinvenuto alcune bobine autopiste di cui non ci ricordavamo nemmeno noi, con delle preproduzioni di alcune canzoni ancora inedite che non abbiamo mai usato perché sono stati anni molto prolifici questi per noi, per cui abbiamo queste canzoni che sono circa una ventina. Ho già chiamato gli altri perché riunire il gruppo purtroppo non si riesce, però abbiamo pensato di eventualmente provare a lavorarci per vedere se si possono rendere proponibili e magari fare uscire una raccolta di curiosità oppure addirittura un album nuovo pur a distanza di tempo e su registrazioni di lavoro, chiamiamole così“.
Vi solletica l’idea, un domani che si potrà tornare ai live – Coronavirus permettendo -, una reunion, almeno a Bologna?
“A me sì. Purtroppo per gli altri due membri del gruppo la cosa non è proprio fattibile, ci siamo già confrontati su questo. Purtroppo Matteo Ferretti difficilmente riuscirà a dedicare abbastanza tempo ad un progetto del genere per cui è fuori questione. Anche Lorenzo con la musica, finita l’esperienza coi Poets, è andato scemando e adesso ha praticamente chiuso. Per cui non credo che una vera e propria reunion non si potrà mai fare. In compenso, però io stavo pensando, Coronavirus permettendo per l’appunto, di proporre in giro queste canzoni, magari con un gruppo ad hoc. Non sarà come avere i Poets, però credo che siano canzoni che meritano. Per cui è una cosa che mi piacerebbe fare, io ho già in parte testato perché a gennaio ho fatto un’intervista per Radio Città Fujiko a Bologna dove con due amici ho fatto live alcuni pezzi dei Poets e pare che sia andata bene, per cui credo che la cosa potrebbe avere un seguito“.
Matteo e Lorenzo ti hanno ascoltato in radio? Sono rimasti contenti?
“Sì. Naturalmente li avevo avvisati prima, per una questione di correttezza. Poi, nei Poets tutti e tre scrivevamo canzoni, per cui alla fine gli ho detto ‘se volete io porto anche dei brani vostri, diversamente porto i miei. Ditemi anche di no’. Per gli altri non c’è stato nessun problema, anzi in realtà sono stati contenti perché è un modo in più per far girare le nostre cose. Il fatto che si suonino live ricordi alla gente che si può ancora fare“.
Adesso continuerà il tuo percorso come chitarrista degli Avvoltoi o stai voltando pagina?
“No, io ho diversi progetti. Gli Avvoltoi ci sono sempre, anche perché sono un gruppo in cui mi trovo bene e sono un gruppo in cui è divertente suonare, tra l’altro. Per cui con gli Avvoltoi l’avventura continua. In parallelo ho anche un altro progetto che si chiama Le Frequenze di Tesla, con cui abbiamo all’attivo due album e stiamo raccogliendo materiale per un terzo lavoro. Adesso non sappiamo se sarà un album, un ep o una manciata di singoli. Non lo sappiamo perché comunque negli ultimi tempi è cambiato molto il modo in cui il pubblico fruisce della musica, per cui stiamo cercando la formula giusta per proporlo. Poi, diciamo che non mi chiudo nessuna porta. Ci sono questi due gruppi che sono quelli attivi, ci sono i Poets che non ci sono più ma ci sono le loro canzoni e vedo che funzionano e mi piacerebbe provare a proporle dal vivo. Per il resto, non poniamo limiti alla provvidenza. Lo scopriremo solo vivendo”.
Visto l’amore anche per i musicarelli che vi hanno ispirato “Groovy!”, ti piacerebbe anche il mondo delle colonne sonore?
“Sì, in realtà io ho fatto qualche colonna sonora in passato. Già con i Poets prendemmo parte, non fu un lavoro mirato, fu una scelta delle canzoni, però prendemmo parte nel 2000 ad una fiction prodotta da ETVRete7 che s’intitolava ‘Tra di noi’. Poi io ho preso parte alla colonna sonora di una docufiction sulla Resistenza partigiana che si chiama ‘La neve cade dai monti’. E poi ho fatto della musica per teatro. Ho collaborato con Claudio Beghelli, che è un drammaturgo e con Giorgio Celli che negli ultimi anni della sua vita aveva aperto un’associazione culturale in cui metteva in scena anche eventi teatrali, installazioni, conferenze e ho scritto diverse musiche per la scena e musiche d’ambiente, gli ho fatto anche la colonna sonora a un paio di radiodrammi“.
Cosa sarebbe per te il premio più grande?
“Onestamente non saprei rispondere. Parliamo di musica, parliamo di umanità?“.
Di musica, immaginavo “un duetto con”, “pubblicare un album con”, “esibirmi sul palcoscenico x”…?
“Ci sarebbero tantissimi desideri. Fino a poco tempo fa, ti avrei potuto dire un album prodotto da Phil Spector, ma purtroppo non si può più. Mi sarebbe piaciuto conoscere alcuni musicisti che anche loro purtroppo non ci sono più, come Freddie Mercury o John Lennon oppure Marc Bolan”.
Praticamente tutti premi impossibili!
“Esatto. Però poi se viene Paul McCartney e dice ‘facciamo un disco insieme’ dico di sì!“.
In foto voi Poets ricordate tanto i Beatles…
“I Beatles erano uno dei nostri gruppi di riferimento. In generale, tutta la Swinging London, per cui anche i King, gli Who, è un sound che ci piace molto. Abbiamo preso i Beatles come punto di riferimento perché erano un punto di incontro tra noi tre, perché ascoltavamo sì queste cose ma anche cose differenti. Diciamo che potevano convergere tutte lì“.
In particolare, il nome Poets a cosa si riferisce?
“Ai tempi a chi ce lo chiedeva dicevamo che non avevamo scelto noi il nome, ma era il nome che aveva scelto noi, perché è successo che Matteo Ferretti era un mio compagno di università. Io facevo filosofia, lui faceva lettere ma avevamo dei corsi in comune. A una lezione di estetica il professore un giorno portò un ospite che si presentò come ‘poeta concreto’. La sua produzione può piacere o non piacere, però l’etichetta ‘poeta concreto’ ci colpì, tanto che all’epoca il gruppo era ancora in via di formazione e dovevamo trovare il nome, quando dopo aver assistito alla prima performance di questo personaggio pensammo che un nome buono potesse essere i ‘poeti concreti’ perché sapeva di anni Sessanta, spiritoso, ci faceva pensare a quelle cose un po’ fuori di testa tipo la poesia sperimentale. Però, Lorenzo che in realtà è stato lui il fondatore del gruppo, come condizione aveva posto che i testi delle canzoni dovessero essere in inglese. Io di fronte all’idea del nome in italiano ma le canzoni scritte in inglese storcevo un po’ il naso, avrei preferito più coerenza, per cui proposi di tradurlo in inglese, però ‘concret poet’ non suonava bene, per cui levammo ‘concret’ e lasciammo ‘Poets’. In più, nei gruppi degli anni Sessanta c’era sempre l’articolo, allora non è ‘Poets’ ma ‘The Poets’. Siamo andati avanti così. Era un nome che inizialmente non convinceva appieno nessuno, poi pian, piano abbiamo imparato a volergli bene. Poi c’è stato uno, due anni dopo, non mi ricordo di preciso, che ero con Lorenzo ad una Fiera del disco. Vorrei precisare che Internet era una cosa ancora giovane, per cui non avevamo tutta questa possibilità e nemmeno la mentalità di andare a documentarci sulle cose in Rete e non avevamo idea che negli anni Sessanta c’era un gruppo che si chiamava ‘Poets’ e un giorno alla Fiera del disco vediamo questo 33 giri in bella mostra, ‘The Poets’. Ci siamo rimasti un attimo così. L’abbiamo comprato a quel punto perché dovevamo sentire cos’era e abbiamo scoperto che il genere era praticamente il nostro. Ci abbiamo pensato un attimo, poi abbiamo detto ‘dai, sono passati più di trent’anni, noi sono già due anni che suoniamo insieme, stiamo iniziando ad avere del pubblico, non cambiamo nome’ e siamo rimasti così“.
Anche loro con l’articolo?
“Sì, anche loro con l’articolo! Tra l’altro, se oggi cerchi ‘Poets’ su Spotify compariamo noi, poi questi qua degli anni Sessanta e poi un altro gruppo ancora. Per cui è un nome che evidentemente in qualche modo s’impone sui gruppi. Ha un certo appeal“.