“Napoleone. Nel nome dell’arte”, quando il bottino di guerra cozza con l’ideale del bello
“Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza: nui chiniam la fronte al Massimo Fattor, che volle in lui del creator suo spirito più vasta orma stampar”, sulla scia di questi versi dell’ode di Alessandro Manzoni, scritta di getto alla notizia della morte di Napoleone il 5 maggio 1821, sembra incanalarsi a due secoli di distanza il documentario “Napoleone. Nel nome dell’arte”, che celebra l’immortalità della grandezza lungimirante del generale francese. Questa opera, prodotta da 3D Produzioni e Nexo Digital in partnership con Intesa Sanpaolo e Gallerie d’Italia, in arrivo nelle sale italiane solo l’8, 9, 10 novembre, muove dalle parole di Napoleone scritte nell’esilio dell’ostile isola di Sant’Elena: sarà ricordato dai posteri non solo per le battaglie, ma anche per avere portato al popolo cultura e bellezza, ponendo le basi della scuola pubblica e dell’idea moderna di museo universale. Su soggetto di Didi Gnocchi, che firma la sceneggiatura con Matteo Moneta, il film diretto da Giovanni Piscaglia, con colonna sonora originale del compositore e pianista Remo Anzovino e la voce narrante di Jeremy Irons, scava nella profondità del pensiero di Napoleone, nel suo idealismo che si fa propaganda e nel suo amore per la cultura e l’arte che lo rende divulgatore del bello. Il documentario si sofferma sul condottiero che sposa l’impeto in battaglia allo studio dell’archeologia e dell’arte, dando vita a quello che passerà come Stile Impero, una corrente del Neoclassicismo. Durante le campagne militari, i suoi bottini contemplavano manoscritti e opere di incommensurabile valore, che di certo creavano malcontento nella popolazione vinta, ma, al tempo stesso, contribuì a portare alla luce mattoni importanti del sapere, come la stele di Rosetta punto di svolta per la decifrazione dei geroglifici, fondando anche i primi musei pubblici del mondo, il Louvre di Parigi e, sul suo esempio, la Pinacoteca di Brera di Milano. La sua mente era legata ai miti di Alessandro Magno, Augusto e Adriano, ma anche di Carlo Magno, la cui corona di ferro longobarda indossò durante la cerimonia di incoronazione come Re d’Italia nel Duomo di Milano, subito dopo esser diventato Imperatore di Francia. Al racconto prezioso di questo amore per l’arte da parte di Napoleone, il film unisce la ricostruzione filologica e attenta del Te Deum di Francesco Pollini, composto e suonato per l’incoronazione di Napoleone a Re d’Italia, e il cui spartito è stato solo recentemente ritrovato dalla docente del Conservatorio di Milano Licia Sirch tra le carte dell’Archivio di Stato. L’unica pecca del documentario è il non aver menzionato il Regno delle Due Sicilie, dove i Borboni diedero avvio alla rivalorizzazione dell’antico grazie agli scavi settecenteschi di Pompei ed Ercolano e con cui Napoleone rivaleggiò, traendone ispirazione.