João Nicolau, quando il surreale permette di guardare alla vita da diverse prospettive
Ha una gentilezza, un tatto ed una sensibilità fuori dal comune. Del suo cinema intrigano i toni surreali e assurdi accompagnati da profonda umanità. Se si legge il suo curriculum si scopre che oltre ad essere regista, montatore, attore e musicista, ha studiato antropologia, studi che tornano nel suo cinema incuriosendo non poco. Un esempio? Il suo film “John From” riprende la figura centrale di un culto del cargo diffuso sull’isola di Tanna, nello stato oceaniano di Vanuatu, dove sta per tornare a girare un documentario sul ruolo della musica nella religione. È João Nicolau (Lisbona, classe 1975). L’ho intervistato al telefono in occasione della proiezione a Milano del film “Technoboss” (che ha presentato la prima volta al Locarno Film Festival nel 2019) nell’ambito di Luso, la mostra itinerante del nuovo cinema portoghese. Il film racconta del sessantenne Luis Rovisco in procinto di andare in pensione da direttore commerciale della ditta SegurVale (Sistemi integrati di controllo degli accessi), un uomo che trascorre tanto tempo al volante della sua auto, cantando canzoni ispirate a ciò che vede per strada, e costantemente alle prese nel suo lavoro con una tecnologia sempre più incomprensibile.
João Nicolau, com’è nata l’idea del film “Technoboss” dai toni così surreali?
“Penso che il cinema abbia la possibilità di mettere allo stesso livello alcune realità che tentiamo di separare nella vita quotidiana e questo mi piace per costruire i film, l’ho già fatto per i miei film precedenti. Quindi è così che il film è venuto fuori con tali toni surreali, perché volevo che il pubblico conoscesse il personaggio attraverso alcune prospettive molto differenti“.
È il suo essere anche musicista che l’ha portata a un film con canti a volta a cappella talaltri metal?
“Non sono un vero musicista, ma, per inciso, è vero che ascolto più musica che guardare film. La musica è una parte importante della mia vita quotidiana e quindi tendo a usarla molto nei film. D’altronde la musica è così presente nella vita di tutti noi che non penso sia una cosa così speciale se ce ne sia tanta in questo film che, diciamolo pure, è un film musicale. Inoltre, e ciò si collega con la risposta precedente, il conoscere il personaggio anche attraverso la musica fornisce allo spettatore diversi e nuovi punti di vista sul personaggio“.
Miguel Lobo Antunes è irresistibile. Come l’ha scelto?
“In realtà, la cosa è stata divertente. Nello scegliere il protagonista per questo film, avevo l’idea che doveva essere un attore professionista perché doveva sia recitare che cantare; quindi, parto per essere molto esigente provinando molti attori e anche cantanti, ma alla fine qualcosa mi mancava sempre. Poi ho incontrato Miguel, che non è né un attore né un cantante, ma mi interessava il modo in cui vive la vita che ha già qualcosa in sé del personaggio. Lui non aveva nulla da perdere a mettersi in gioco e così l’ho scelto”.
Perché ha voluto raccontare un uomo che stava per andare in pensione?
“Questo film parla di una persona anziana, ma il pensiero che è alla base e che mi interessa è il processo di cambiamento che lo scorrere dell’età implica nelle nostre vite: l’inizio di nuove fasi è il fattore che più mi appassiona. Come un bambino che sta andando a scuola per la prima volta, così anche questo personaggio che è vicino alla pensione si porta con sé un nuovo pensiero della vita, una nuova fase a cui deve adattarsi”.
Qual è il suo rapporto con la tecnologia, visto che il protagonista di “Technoboss” s’imbatte in essa rocambolescamente?
“La tecnologia è solo un’estensione dello spirito umano. Tutta la tecnologia è stata inventata dall’uomo. Sentiamo molto parlare di intelligenza artificiale e di come siamo dominati dalla tecnologia, ma alla fine la tecnologia è un prodotto umano; quindi, è così che dobbiamo relazionarci ad essa. In questo film la tecnologia mi interessava in particolar modo perché poteva fornire situazioni fisiche al film, dando vita a scene cinematografiche interessanti”.
Ha mai pensato di fare un film in Italia?
“No, ad essere onesti, non almeno in termini concreti, ma dico: perché no? Lavoro con un italiano, il mio montatore è un regista italiano, Alessandro Comodin; quindi, ho contatti con la realtà cinematografica italiana. Porto i miei film in Italia, a Venezia, a Milano, a Torino…, quindi questo è un paese a cui penso interessi il mio cinema. Se va in porto un progetto in cui è possibile girare in Italia, dico: perché no?”.
A cosa sta lavorando ora?
“Sto lavorando a due film in questo momento: un documentario, in un paese nell’Oceano Pacifico, Vanuatu, sul ruolo della musica nella religione; e un film di finzione, che è stato ispirato da uno dei primi racconti di Robert Louis Stevenson. Quest’ultimo è ambientato nel passato e ci sono molti posti in Europa in cui questo film potrebbe essere girato, Italia inclusa ovviamente”.