“Le Marocchinate del 44”, la cineasta Damiana Leone guida al rispetto per le donne violentate in guerra
Se si cerca il termine “marocchinate” sul web, il risultato è: “donne vittime di violenze, stupri e omicidi nelle province di Frosinone e di Latina compiuti dalle truppe marocchine dell’esercito francese (cioè degli Alleati) dopo aver battuto i nazifascisti nel 1944, durante la Seconda Guerra Mondiale”. Da questo significato si evince lo stigma portato e sopportato sulla propria pelle per tutto il resto della vita dalle sopravvissute vittime di queste atroci violenze perpetrate nel maggio del 1944. Con una forma di rispetto senza eguali, la cineasta Damiana Leone cerca di ricostruire quelle tristi vicende, di cui anche parlarne in Parlamento sembrava oltraggioso, in un docufilm carico di partecipazione per le vittime: “Le Marocchinate del 44”, prodotto da Mariella Li Sacchi e Amedeo Letizia. In una dichiarazione la regista sottolinea: “In una continua oscillazione di cifre, si calcola che vennero violentate e brutalizzate almeno 20.000 donne, di tutte le età, e una cifra imprecisata di bambini e uomini. Fu un caso unico nella storia della Seconda Guerra Mondiale e non solo, totalmente lontano dalla contrapposizione tra fascismo e antifascismo, una scheggia dell’orrore del colonialismo arrivata in Italia per volontà dell’esercito francese, tutt’ora non riconosciuto come Stupro di Guerra e, quindi, come Crimine contro l’umanità. Io lavoro sulle Marocchinate sin dal 2009, partendo da uno spettacolo teatrale (il primo in assoluto sul tema) e poi approfondendo e facendo progetti su quegli stupri, unici nel loro genere”. Delle violenze perpetrate dal Cef (Corps expéditionnaire français en Italie, Corpo di spedizione francese in Italia) nel Basso Lazio per tanto tempo se n’è parlato poco; a smuovere un po’ l’opinione pubblica mondiale fu Alberto Moravia col romanzo “La ciociara” del 1957 e con il successivo successo dell’omonima pellicola di Vittorio De Sica del 1962, tratta da quel libro, con protagonista Sophia Loren che si aggiudicò per quell’interpretazione il premio Oscar alla migliore attrice protagonista. Migliaia furono le donne violentate, come Cesira e sua figlia Rosetta nel film, da coloro che in Italia dovevano essere i liberatori dal nazifascismo. Molte di quelle donne furono contagiate da sifilide, blenorragia e altre malattie veneree, e spesso contagiarono i loro mariti. Tantissime furono le donne che rimasero incinte; si conta, ad esempio, che l’orfanotrofio di Veroli (in provincia di Frosinone) accolse, dopo la guerra, circa 400 bambini nati da quelle unioni indesiderate. Purtroppo, a dolore si aggiunse dolore: molte delle donne “marocchinate” furono emarginate dalla comunità, a causa dei pregiudizi di allora, tante furono poi ripudiate dalle famiglie e a centinaia, non resistendo a quella incredibile sofferenza, si tolsero la vita. Il docufilm dona l’amore negato allora a queste donne, attraverso le molte storie raccolte. La regista parte dal ricordo di sua nonna sul tentativo di stupro da lei subìto da parte dei goumiers (i soldati di nazionalità marocchina, incorporati nell’esercito francese, tra il 1908 e il 1956), per poi ascoltare tante nonne, anche quella del montatore Giuseppe Treppiedi e della direttrice della fotografia Gioia Onorati, e pure la mamma della produttrice. Il risultato è un’opera che va nel “femminile familiare” di coloro che hanno realizzato il film, dove, com’è ben scritto nella nota stampa, “un microcosmo diventa un’immagine del macrocosmo e della grande storia”. Ciò che accompagna tutto il film, rendendolo radioso, è l’incredibile sensibilità nell’affrontare un tema che l’ipocrisia italiana ha cercato a tutti i livelli, soprattutto nelle sfere politiche, di non affrontare con la dovuta attenzione, guidando così gli spettatori e tutta la società nel ricordo dovuto alle donne violentate nella Seconda Guerra Mondiale, che si fanno qui monito di rispetto e amore nei confronti di tutte le donne stuprate in guerra.